giovedì 7 marzo 2013

24effepiesse: L'Arcano Incantatore


Pupi Avati non è solo un regista di commedie, ma anche di grottesco, horror, noir, thriller. Ha scritto e diretto alcuni film che ormai sono entrati nel mito; film di culto per tutti i fruitori dell'horror in generale. Tutti conosciamo “La Casa dalle Finestre che Ridono”, vero marchio di fabbrica di quel modo di trattare la paura da un punto di vista bucolico e provinciale, più terrificante di un qualsiasi scenario urbano e caotico. Il versante “horror” di Avati porta con sé una paura strisciante: la costante impressione che si celi qualcosa nel buio, vicino a te, forse addirittura dentro di te. Avati riesce a rendere questa sensazione realistica, imprimendola sulla pellicola.
Nel corso della sua carriera ha diretto e scritto vere e proprie gemme preziose ma, a parte il succitato successo, non è mai uscito dalla penombra dell'horror italiano seventies, pur avendo diretto film del calibro di “Zeder”, “Il nascondiglio”, o i primi grotesque “Balsamus, l'uomo di Satana” e “Thomas e gli Indemoniati”. Registi quali Argento, Bava o Fulci hanno avuto un successo maggiore, a volte meritatamente e, a mio modesto parere, altre volte no.
Di recente, mentre mi aggiornavo riguardo ad alcune filmografie dei miei registi preferiti, mi sono resa conto (grazie a Wikipedia eh eh) di avere una lacuna enorme in quella del buon Avati! Questa mancanza prende il nome de “L'arcano Incantatore”.
Il film è uscito nel 1996 e in tutti questi anni mi è clamorosamente sfuggito, capita! Ma forse è stato meglio così; guardarlo da adulta e con un certo tipo di istruzione alle spalle mi ha permesso di apprezzarne tutte le sfumature, anche quelle più nascoste. Infatti il film è presentato come un horror esoterico, e lo è davvero! Ci sono tanti di quei simboli e richiami arcani/enigmatici/oscuri nelle scenografie e nella trama da poterci scrivere un intero libro sopra. Ma è anche un film con un forte sapore di periferia, di campagna, di isolato. La nebbia del mattino, albe sconfinate, paesaggi mozzafiato e, sullo sfondo, il provincialismo e l'ignoranza astrusa dei paesani che ingigantiscono dicerie a partire dal comunissimo “ho sentito che...” creando così l'intera suspance, facendo rincorre le voci, mescolando ciò che realmente si vede e ciò che è accennato.
Il protagonista è Giacomo Vigetti, un seminarista cacciato da Bologna per aver messo incinta una giovane ragazza, poi costretta dallo stesso ad abortire. A questo punto Giacomo cerca un posto dove rifugiarsi e viene indirizzato verso una sinistra villa. Qui incontra una donna che si nasconde dietro un dipinto e di cui non vedrà mai il volto; con lei stipula un patto di sangue che lo porta al servizio, come segretario, di un ex monsignore allontanato dalla Chiesa perché occultista, chiamato “arcano incantatore”.
Parte così una escalation di avvenimenti che portano Giacomo su un terreno terrificante, misterioso e affascinante. Non vi svelo altro riguardo alla trama perché è un film tutto da scoprire: un viaggio iniziatico che ognuno deve compiere da sé.
In realtà quest'opera, della quale fino a ora ho esaltato solo gli aspetti positivi, non è priva di difetti. Innanzitutto la trama a volte è veramente troppo contorta ed ermetica: in alcuni punti, se non si ha dimestichezza con l'argomento, è parecchio difficile da seguire. Inoltre, a parte la bravura di Stefano Dionisi (Giacomo Vigetti) e Carlo Cecchi (l’arcano incantatore), gli altri attori, pur essendo comprimari, non risultano essere all'altezza dei due protagonisti. Tuttavia, questi difetti non offuscano minimamente la bellezza del film: la sua forza è nella tensione, figlia di quel buon cinema che ti fa cagare nelle mutande senza mostrare troppo, nella sospensione del reale e nel dubbio.
Chiaramente, vi consiglio di guardarlo perché è un ottimo film, che dopo 17 anni dall'uscita ha ancora molto da dire.
Buona visione!






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